Filippo Riniolo
Filippo Riniolo è nato a Milano nel 1986, vive e lavora a Roma dove si è laureato nel 2011 all’Accademia di Belle Arti con una tesi sull’impatto della finanziarizzazione sull’arte contemporanea. La sua ricerca esplora temi poetici, politici, sociali, storici e ovviamente attuali in coniugazione con le radici e il passato. Nelle sue aree di interesse ci sono la relazione tra corpo e potere, la diversità sessuale, temi di genere e post-coloniali.
Inoltre la sua ricerca si occupa della relazione tra l’identità dell’artista e la storia europea. Spesso le sue opere utilizzano elementi di cultura greca e latina per poter rileggere il presente. Il suo lavoro si basa sulla convinzione per cui un artista europeo deve essere in grado di usare tutto l’enorme peso della storia che ha alle spalle. Filosofia, filologia, religione sono elementi utilizzati per comprendere ciò che sta accadendo intorno a noi, con un approccio fortemente scandito e innervato dalle nuove tecnologie.
Nei suoi strumenti di ricerca ci sono installazione, performance, suono e video, a volte la pittura oppure pale d’altare e pezzi di marmo… Dipende ovviamente dal messaggio e dall’area di indagine. L’uso di sostanze chimiche o il recupero di tecniche antiche sono parte dell’approccio evolutivo che l’artista ha con la storia.
Intervista a FILIPPO RINIOLO di Nicoletta Biglietti
Una voce a ricordare una Vita. O meglio, a ricordare 1022 vite strappate alla loro quotidianità da una tirannica dittatura che le ha rese “schede da scegliere” e numeri da eliminare.
È mediante il riferimento a quello che può essere definito un “banale atto di burocrazia” che gli ufficiali nazisti perpetuavano ai danni degli ebrei, che Filippo Riniolo presenta la performance Selezioni; un progetto performativo – riproposto in occasione della seconda edizione di CONNEXXION, Festival Diffuso di Arte Contemporanea, dal titolo …per essere liberi. Tra identità e memoria, a cura di Livia Savorelli – in cui il discrimine tra vita e morte è labile. È infatti solo attraverso lo spostamento di una scheda che riportava i dati anagrafici dei deportati che i militari ne decidevano la sorte.
Un gesto – tanto “semplice” quanto disumano – a cui Riniolo ha sovrapposto il concetto di schedatura e “annichilimento” contemporaneo insita nell’interfaccia tecnologica dei canali social, in cui ogni uomo è ridotto a numero, a scheda. E quando così accade, c’è già un campo di concentramento pronto ad aspettarlo. Sia esso fisico, virtuale o emotivo.
Il progetto Selezioni – ideato in occasione della ricorrenza del rastrellamento del Ghetto di Roma (16 ottobre 1943) e che tu hai ripresentato in occasione di CONNEXXION – prende le mosse dal terribile episodio della selezione ad Auschwitz narrato da Primo Levi in “Se questo è un uomo”. Come hai deciso di realizzare una performance che parlasse di un periodo così buio per la storia dell’umanità, coniugandolo – nella progettualità – all’utilizzo di un device moderno come il cellulare?
Tutto il mio lavoro nasce sul provare a capire le relazioni fra antichità e contemporaneità, leggendo l’oggi – con le sue molteplici e differenti sfaccettature – alla luce dei secoli passati.
In particolare, in occasione della performance Selezioni, ho provato a indagare il processo di annichilimento umano verificatosi nel Novecento con il nazismo rispetto al nostro attuale rapporto con il digitale. Perché se i prigionieri di un campo di concentramento correvano di fronte ad un ufficiale nazista e quest’ultimo aveva il compito di scegliere – con un gesto semplice, ma terribilmente crudele – il loro destino, spostando semplicemente a destra o a sinistra la scheda anagrafica che gli veniva consegnata, questo deve farci riflettere. Deve farci comprendere quanto si possa nullificare la personalità umana anche con quelle che possono sembrare “semplici e banali azioni” quotidiane, alle quali decidiamo di non opporci con fermezza.
Un aspetto che, seppur possa sembrare così distante da Noi, non è, in realtà, mai stato così vicino: il processo di schedatura e selezione degli individui è infatti a portata di mano; è una condizione intrinseca che ognuno di noi – consapevolmente o meno – attua quasi quotidianamente, perché le applicazioni come Instagram, Tinder o i social network in generale, ci “impongono” di “selezionare” le persone in base a pochi dati sintetici e così, quelle che erano persone, ora sono solo file e numeri.
Da qui la mia decisione di realizzare una performance in cui la schedatura – quale elemento di spersonalizzazione tanto nel passato quanto nel presente, seppur con le opportune differenze del caso – passasse dall’essere mezzo di disumanizzazione a elemento in grado di ridare dignità all’uomo.
La riproposizione delle performance è avvenuta in occasione della seconda edizione di CONNEXXION, e in particolar modo nell’Ex Carcere Sant’Agostino; in che modo la tua progettualità si interrelava con la tematica centrale del Festival?
La mia performance si pone come una nuova forma di Resistenza alla disumanizzazione che la tecnologia di oggi ci propone, delineando nel fruitore sia una maggior coscienziosità nel rapporto con i social – e con il cellulare in particolare – sia costruendo una consapevolezza critica verso ciò che potrebbe essere oggi un approccio nichilistico verso l’uomo.
Perché la sovrapposizione tra passato – con il processo di schedatura del nazismo – e il presente – con la riduzione dell’individuo a scheda e numero effimero – solleva degli interrogativi nei fruitori, facendoli riflettere sulla quotidianità di gesti che tendono sempre più a disumanizzare l’altro.
Un aspetto che notiamo quasi ogni giorno, in realtà, quando all’eco di un nuovo bollettino di guerra sentiamo i numeri delle vittime. Dei numeri che difficilmente, purtroppo, riusciamo a quantificare nella nostra percezione, perché se si tratta di dieci, venti o cinquanta persone è ancora un processo possibile, ma se ci riferiamo ad un centinaio o ad un migliaio di vittime allora è più complesso.
Ed è proprio qui che emerge l’importanza dell’aspetto percettivo della performance che restituisce una dimensione umana, fisica e soprattutto temporale a quelle 1022 persone, i cui nomi – pronunciati da me in ordine alfabetico ad alta voce – occupano circa mezz’ora.
Circa trenta minuti in cui si fa ricordo – quasi come in un rosario laico – di uomini, donne, bambini, anziani e intere famiglie spazzate via dalla follia nazista. Una ripetizione nominale che è ricordo, ma soprattutto vita, perché se nel campo di sterminio il nome veniva cancellato e sostituito da un numero sul braccio, ora, tramite la proclamazione dei nomi e delle genealogie, si ribalta quel presupposto di annichilimento e nullificazione umana che c’era ieri come oggi, seppur sotto “differenti spoglie”.
Selezioni è una performance che impatta notevolmente sui fruitori, ma dal punto di vista della tua fatica fisica ed emotiva come vivi la sua messa in opera?
Fisicamente è faticosissimo, perché si va in iperventilazione. La lettura dei nomi, infatti, segue il tappeto sonoro alla base della performance, che è “Rosamunda”, una marcetta
allegra con la quale i detenuti entravano e uscivano dal campo di concentramento.
Il sottofondo musicale trasmette un senso di contrasto intrinseco fra l’allegria della canzone e l’annuncio di morte che sottende.
Ma oltre alla fatica fisica, ciò che risulta “pesante” è anche il carico emotivo, perché alcuni cognomi – e sono molti a dire la verità – mi ricordano alcune persone ebree che hanno fatto o fanno parte della mia vita.
L’Arte ovviamente non serve a fare propaganda, ma a costruire consapevolezza e secondo me quest’opera rende molto la necessità di “schierarsi”, ma non per una fazione o l’altra, bensì contro ciò che riteniamo ingiusto e inadeguato, proprio come la riduzione di una persona ad un numero, perché quando questo accade, c’è già un campo di concentramento che l’aspetta, sia esso fisico, virtuale o emotivo.
CAPPELLA EX CARCERE SANT’AGOSTINO
SELEZIONI. PERFORMANCE
Il progetto SELEZIONI di Filippo Riniolo prende le mosse dal terribile episodio della selezione ad Auschwitz, narrato da Primo Levi in Se questo è un uomo. Di fronte a un ufficiale nazista, i prigionieri correvano mentre quest’ultimo, in pochi istanti, decideva del loro destino, spostando semplicemente a destra o a sinistra la scheda che gli veniva consegnata.
Un atto di banale burocrazia che tracciava la linea tra la vita e la morte, per bilanciare gli inumani conti del campo. Questo, tuttavia, costituisce il fulcro della riflessione di Hannah Arendt sulla “banalità del male”, che non risiede solo nel mostro al potere, ma si manifesta anche in queste azioni quotidiane alle quali dobbiamo opporci con fermezza.
A questo gesto – terribile nella sua disarmante semplicità – Riniolo sovrappone un’altra forma di gestualità, quella dell’interfaccia tecnologica dei social media, allo scopo di farci riflettere su quanto la follia dei campi di sterminio non sia lontana da noi.
App social come le storie di Instagram e le app di incontri ci impongono continuamente di “selezionare” le persone in base a pochi dati sintetici. E il nostro gesto le colloca a destra o a sinistra, a seconda che ci piacciano o meno. Questa sovrapposizione solleva interrogativi nei fruitori sul fatto che anche loro, come tutti noi, compiamo un gesto che invece di alimentare le relazioni, disumanizza. L’app che scorre sul cellulare dell’artista è stata programmata in modo che solo i nomi delle otto persone che si sono salvate scorrano a destra, mentre tutti gli altri, morti nei campi di sterminio, scorrano a sinistra. Proprio come su Tinder.
Quando le persone vengono ridotte a schede, a numeri, si crea il presupposto per un lager. E lo notiamo in quanto siano disumanizzanti i bollettini di guerra con le cifre dei morti che ogni giorno sentiamo.
L’altro elemento protagonista dell’opera è la voce. L’opera accompagna il gesto di scorrere tutti i 1022 nomi e le relative date, proclamandoli ad alta voce. La lenta lettura di tutti i nomi evoca un rosario laico. I nomi si perdono nella loro cantilena, come un mantra che fa perdere il significato delle parole e si concentra solo sul suono. Tuttavia, la lettura di questi nomi restituisce anche l’elemento dell’ordine di grandezza: possiamo comprendere una morte, una decina di morti, ma solo ascoltando per mezz’ora i nomi di tutti i deportati possiamo davvero percepire quanti siano mille morti. Poiché sono elencati in ordine alfabetico per cognome, per diversi minuti si sente lo stesso cognome, rivelando l’enormità delle famiglie spazzate via. La voce, in questo caso, svolge altre due funzioni essenziali: ribalta il campo di sterminio, in cui il nome veniva cancellato e sostituito da un numero sul braccio. Ma, soprattutto, la voce svolge la funzione di memoria: la tradizione orale, la memoria dei popoli, si è tramandata proprio attraverso la voce, nel proclamare e ripetere nomi e genealogie.
Il tappeto sonoro della performance è “rosamunda”, una marcetta allegra con la quale i detenuti entravano e uscivano dal campo di concentramento. Nella sua ripetizione trasmette tutto il contrasto fra l’allegria della musica e l’annuncio di morte che sottende.