Alice Padovani
Alice Padovani è nata nel 1979 a Modena, dove vive e lavora. Laureata in Filosofia e in Arti visive, dopo aver lavorato per diversi anni nell’ambito del teatro contemporaneo, sviluppa il proprio percorso di artista visiva che la porta a esporre in mostre personali, collettive, fiere d’arte e a ricevere numerosi premi e riconoscimenti a carattere nazionale e internazionale. I suoi lavori fanno parte di alcune importanti collezioni in Italia e all’estero, private e pubbliche tra cui Museo Civico di Modena, Reggia di Caserta, MuDi Taranto.
Con uno spirito classificatorio simile a quello neo-settecentesco, unisce alla spontaneità dell’impulso creativo il rigore del metodo scientifico. Passando attraverso installazioni, scultura, disegni e performance nelle sue opere propone frammenti di una natura decontestualizzata e crea collezioni che sono, al contempo, cumuli e tracce, dove la memoria naturale e personale si fondono.
Intervista a ALICE PADOVANI di Francesca Di Giorgio
Ti sei già trovata a tu per tu con istituzioni museali realizzando installazioni site-specific che hanno dialogato con raccolte archeologiche, d’arte e di etnologia. Nella performance che hai pensato per il Museo Archeologico di Savona, all’interno della Fortezza del Priamar, metti in gioco te stessa. Deimatico, questo il titolo dell’opera, è accompagnata da una sonorizzazione originale, ideata e realizzata dalla band Le Piccole Morti. Un “discorso” sulla paura ma anche su ciò che abbiamo dimenticato del nostro essere animali?
Nel regno animale, il comportamento deimatico è esattamente una manifestazione di minaccia volta a spaventare, intimidire o anche solo distrarre i predatori. L’opera racconta con diversi livelli di lettura questa urgenza: il bisogno di protezione, il desiderio di diventare animale, l’aggressività finalizzata alla propria conservazione, l’insicurezza mimetizzata, il farsi altro. Una pelle, con tutte le sue spine ancora attaccate, ci parla dello scoprirsi e dell’esporsi, del togliere lo strato superficiale di spine e di paure per vivere il nostro corpo fragile e corruttibile. Quello che vediamo in questa azione è l’Ecdisis, il processo di liberarsi della vecchia pelle dopo un enorme sforzo fisico ed emotivo per offrire la nostra parte più vulnerabile.
L’idea suggerita qui presente è la possibilità di ritrovare un noi diverso. È la presa di coscienza che porta al cambiamento, alla metamorfosi di stato, sia esteriore sia interiore. Parla del passaggio di stato che ogni essere vivente può fare, a volte doloroso a volte necessario per evolvere.
Performance, disegno e installazione si integrano spesso nel tuo lavoro. Al Museo Archeologico, insieme alla performance di cui abbiamo parlato, due installazioni dialoganti: Deimatico, Prima pelle in cui la “muta di spine” diventa scultura – pendant dell’atto performativo – e Apparato radicale #5 – un grande stendardo dorato che “affonda” in uno degli scavi archeologici. Da Gulli Arte per la mostra, Archeologie del contemporaneo. Sospensioni, lo spazio di galleria suggerisce invece di portare lavori dalle dimensioni più ridotte ma forse più conosciute: gli assemblaggi in teche entomologiche… Ci parli nello specifico di questi lavori?
Gli assemblaggi in teche entomologiche sono composti da molti elementi dove prevale un equilibrio precario tra ordine e caos, natura e artificio, geometria e gesto creativo. In questi lavori si trovano alcune delle istanze che ho esplorato in modo più profondo: lo spirito classificatorio, la raccolta e il trattenere in modo forzato vuole riportare a idee di memoria, oblio e morte. Il gesto di spillare un’ala di farfalla o un piccolo oggetto di umana memoria è un tentativo, vano, di conservare l’effimero della vita.
In queste opere compaiono spesso elementi vegetali secchi ma, ancora più di frequente, insetti. Questi ultimi, a differenza degli esseri umani, la cui “imperfezione” è la ragione della nostra costante mutazione, sono già esseri perfetti, e forse per questo scatenano la mia curiosità. In particolare, da sempre generano sentimenti contrastanti che oscillano dalla paura alla meraviglia e sembrano essere i testimoni perfetti per trasmettere un’autentica curiosità verso ciò che è considerato diverso.
Essi, inoltre, anche da morti sembrano poterci ricordare la vita: i loro corpi incorruttibili restano splendenti in un illusorio attimo di eternità, come a dirci che la loro natura perfetta resterà tale per sempre.
So che non ami parlare di generi attraverso il tuo lavoro ma il tuo è un corpo di donna che porta con sé, di fatto, molte più complessità di quello maschile. Da amante e studiosa del mondo animale, qual è il più grande apprendimento sulle diversità che possiamo assorbire dalla Natura?
Come ricordi tu non amo parlare di generi e la femminilità non è mai stato tema fondante nel mio lavoro. Non sono nemmeno sicura che il corpo femminile debba sempre essere considerato più complesso, più fragile, più significativo di quello maschile: anzi continuare a parlarne in questi termini a mio avviso crea i presupposti per ghettizzare il femminile e tutto ciò che ne deriva a livello sociale.
Mi interessa il corpo umano inteso come macchina animale esente da criteri sessuali, ugualmente fragile, forte, impenetrabile o vulnerabile.
Della natura, fonte inesauribile di ispirazione e di conoscenza, amo in particolare la totale mancanza di giudizio, e con questo non intendo dire che la natura sia priva di saggezza o logica, tutt’altro. La natura semplicemente non giudica.
Le cose non sono vissute come giuste o ingiuste, buone o cattive. Ciò che esiste è esattamente come deve essere.
Nella natura umana gli artefatti sociali e culturali hanno creato così tante barriere che ci siamo dimenticati di essere bestie. Questo ha dato vita a diverse aberrazioni tra cui questa netta divisione nei generi e il più generico sentirsi perennemente in bilico tra il poter essere qualcosa e il dover essere qualcos’altro.