Camilla Marinoni
Camilla Marinoni è nata a Bergamo nel 1979. Vive e lavora in Italia.
Nel 2003 si diploma in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano dove nel 2007 consegue il diploma specialistico in Arte Sacra Contemporanea.
Nel 2007 partecipa al Corso d’eccellenza di Scultura, Gioiello e Design presso il Centro TAM di Pietrarubbia (PU) nelle Marche, presieduto da Arnaldo Pomodoro e con la direzione artistica di Nunzio. Qui inizia a focalizzarsi sul corpo come mezzo espressivo con cui far dialogare sculture e installazioni. Nel 2018 approfondisce la tematica sulla performance e la body art partecipando al workshop Teoría y practica del Performance Art con Abel Azcona a Madrid e nel 2019 al workshop Free unicorn con Chiara Bersani presso la GAMeC di Bergamo.
Intervista a CAMILLA MARINONI di Francesca Di Giorgio
L’immortalità non consola della morte è il titolo del lavoro all’interno della mostra, Archeologie del contemporaneo. Svelamenti, al Museo Archeologico di Savona e che dà il titolo anche ad una performance. Di quali elementi si compone l’opera e come interagisce con lo spazio e i resti dell’area archeologica?
L’area archeologica mi ha affascinata fin da subito: è lo spazio più suggestivo del Museo in cui si trovano le tombe alla cappuccina. I resti di questa necropoli silenziosa, la loro forma e il giorno di inaugurazione della mostra (26 novembre, ndr), mi hanno suggerito il lavoro da esporre e la performance da realizzare.
Tutto il progetto ruota attorno al tentativo di ricostruire un corpo e di farne memoria.
Si ritrovano tracce di esso nell’installazione a parete composta da lenzuola matrimoniali che, come sudari, portano tracce dei corpi che hanno avvolto in passato.
Su due di esse è presente l’immagine fotografica di un seno e di un ombelico: segni di nutrimento e di relazione con l’altro. Tutto è sfuggevole, nulla ci appartiene e niente resta immutato se non i segni deboli di un passaggio di vita.
Come una restauratrice, o un’archeologa, cerco, scopro, recupero, cullo, scuoto e poi assemblo tutti gli altri resti del corpo sparsi nell’area. Sono parti di corpo che ho realizzato in ceramica e che, alla fine della performance, ricreano la forma di una tomba che dialoga con le altre presenti nello spazio.
Durante la performance mi accompagna il lungo elenco di nomi, e la data di morte, di tutte le donne vittime di femminicidio da inizio gennaio al 25 novembre del 2022. È un rituale sacro, è un inno alla vita di queste donne, una presa di coscienza sulla nostra finitudine senza però volersi arrendere ad essa.
Le lenzuola matrimoniali che hai utilizzato hanno una storia…
Sono una coppia di lenzuola matrimoniali che ho strappato a metà e che ho tinto nel vino, elemento che uso frequentemente per dare forma al tempo e al suo inesorabile fluire senza sosta. Erano entrambe dei miei nonni: in quelle centrali si possono ancora leggere le lettere, ricamate, G. e C. che sono infatti le iniziali di mio nonno. Queste lenzuola poi sono appartenute ai miei genitori e, infine, sono passate a me.
Sono lenzuola intrise di storie, di sogni, di amore ma anche di assenze e sparizioni. Strappate a metà, come la morte sottrae alla vita, lasciando uno spazio vuoto da tenersi a fianco. Con il passare dei giorni il colore violaceo del vino muterà fino a diventare rosato, così farà la memoria per le persone a noi care. Ci sono cose che si dimenticano inevitabilmente e altre che riusciamo a trattenere.
Il nostro stesso corpo cambia e si trasforma giorno dopo giorno, fino ad fermarsi e diventare/ritornare terra. Questo involucro in cui sentiamo di essere e vivere, è qualcosa su cui non abbiamo il completo controllo. Il tempo passa, cerchiamo di fare il possibile per non essere dimenticatə e arrestare i segni del tempo, ma, come dice Simone de Beauvoir, “Sia che l’immaginiamo celeste, sia terrestre, l’immortalità non consola della morte, quando teniamo alla vita”.
Il corpo ha un ruolo centrale anche nelle opere esposte in galleria da Gulli Arte, Archeologie del contemporaneo. Sospensioni, in un certo senso appendice di quella al Museo. La morte torna ad abitare i lavori ma sotto forma di processo naturale: dalla ferita alla cura, dal rifiuto all’accettazione…
Alla galleria Gulli Arte ho presentato due lavori: Zaffo e Voce del corpo. Fame d’amore.
Zaffo è nato nel 2018 per una mostra a cui ero stata invitata a partecipare e che aveva per tema il centenario della fine della Grande Guerra.
Zaffo (dal dizionario): tampone di garza da introdurre e stipare in una cavità naturale (naso, utero), in una breccia operatoria o in una ferita, a scopo emostatico o per controllare la cicatrizzazione nel processo di guarigione per seconda intenzione. Di fronte ad un tema così ampio e così complesso, dopo aver fatto un po’ di ricerca e letto diversi libri ho voluto soffermarmi su due domande: Cosa si prova quando muore una persona amata? Come descrivere il dolore che si sente e si vi>Zaffo, con le sue due immagini e con i suoi cento centrini tutti diversi, è una presa di coscienza, un punto di vista, un vuoto ricamato.
È l’impossibile tentativo di curare una ferita e coprire una mancanza.
Ma è anche cura, rinascita, insegnamento e condivisione perché dal dolore si può imparare molto, tanto da comprendere che la morte fa parte della vita ed è un processo naturale che spetta a tutti. Il filo così intrecciato è il simbolo di pazienza e del tempo dedicato a sé, al proprio dolore e alla persona che abbiamo perso. L’ombra del centrino si adagia sull’immagine fotografica sottostante: un ombelico e un seno, rimando al femminile e alla femminilità, ma anche alla madre e alla prima relazione che abbiamo in vita, entrambi organi primordiali del nutrimento umano.
Nutrimento, per il corpo e per l’anima.
Ecco che cos’è una relazione intima.
Ecco cosa perdiamo con la morte.
Voce del corpo. Fame d’amore è, invece, un’installazione che si compone di sculture in ceramica realizzate a partire dal calco in gesso dello stomaco di un bovino (utilizzato anche per la realizzazione di alcuni disegni ma non esposti in questa occasione).
Anche in questo caso l’attenzione è sul corpo. Corpo che viviamo, abitiamo, nutriamo e, in questo caso, il tentativo è quello di portare all’attenzione la tematica dei disturbi alimentari.
Ogni piccola scultura/vaso rappresenta il calco del vuoto che si trova all’interno del proprio stomaco. Quel vuoto che, per chi soffre di questa malattia, è come una voragine che si vuole riempire, ma, allo stesso tempo, svuotare continuamente.
In alcuni libri che ho letto anni fa, mentre ero in terapia, si trovano le testimonianze di ragazze che descrivono come si sentono: “Ho bisogno di anestetizzarmi, di soffocare un dolore, e lo faccio con la bocca, come se il cibo fosse un tappo: invece di urlare la mia disperazione, chiudo la bocca con il cibo o al cibo per non dire la mia sofferenza” e ancora: “Mangio per vomitare tutti i pensieri che non posso contenere, pensieri che girano all’infinito senza trovare una via che liberi la mente atrofizzata dal dolore”.
In questo lavoro c’è un forte legame fra cibo/vita/morte.
Accettare di avere una malattia, di vivere in uno stato di sofferenza e ascoltare le proprie ferite sono il primo passo per la salvezza.