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Ivano Troisi

Ivano Troisi

Ivano Trosi è nato Salerno nel 1984, dove vive e lavora.
Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Roma, Troisi parte dall’osservazione della natura per attuare un’analisi dei processi che ne caratterizzano le mutazioni.
Tra le mostre ricordiamo: Il sussurro del mondo, Plart, Napoli, a cura di L. Beatrice; Rethinking Nature, MADRE Napoli, a cura di K. Weir e I. Conti; Open Dream Treviso, a cura di F. Arensi, V. Catricalà e M. Cavallarin, La potenza dell’arte contemporanea, Pinacoteca di Potenza, a cura di L. Benedetti, è presente nell’Atlante dell’arte contemporanea a Napoli e in Campania di V. Trione. Nel 2022 è invitato da La Quadriennale di Roma ad una Masterclass di H. U. Obrist.

www.ivanotroisi.com

Intervista a IVANO TROISI di Eleonora Bianchi

L’atavica ricerca di Ivano Troisi si basa sul connubio tra un innato amore per l’elemento naturale e una forte esigenza di attivismo sociale che egli sente in quanto artista. Il risultato è Radice, un fascio di rizomi in ottone che si propone di assorbire dalla Storia per permettere alla società di oggi di fiorire verso un domani migliore, dove il progresso possa essere definito tale anche dal punto di vista ecologico ed etico.

Come nasce la tua opera in mostra al Civico Museo Archeologico, Radice?
Radice nasce da un pensiero sul tema della memoria e sul concetto di ponte tra passato, presente e futuro; vuole instillare una riflessione sulla frenesia della società di oggi. Mi sono interrogato sulla necessità di rallentare, di guardare al passato per comprendere gli errori che sono stati commessi e costruire un futuro più consapevole ed etico. I rizomi, nella loro funzione biologica, raccolgono e mantengono i nutrienti per far crescere la pianta forte e sana, nell’opera essi diventano simbolo, o meglio, auspicio di una società che ha bisogno di radici solide per prosperare. In particolare, li ho immaginati in un cammino verticale anziché orizzontale come in natura, per offrire uno slancio, una prospettiva aurea verso il futuro.

Qual è la relazione che si instaura tra l’opera e il luogo che la accoglie?
Partecipare a questo genere di mostre-innesto mi appassiona sempre: amo realizzare opere site-specific, la maggior parte dei miei lavori lo è. Porto con me il materiale necessario sul posto e realizzo l’opera direttamente in loco, in modo da poter ascoltare e interpretare l’ambiente e adattarmi a esso. Nel caso del Civico Museo Archeologico, Radice instaura una relazione sia con il contenitore sia con il contenuto stesso del museo. Mi affascina particolarmente vedere come possano nascere dialoghi e confronti anche a distanza di molti secoli. L’interazione tra i reperti archeologici e la mia opera dà vita a un dibattito che spero possa arricchire entrambe le dimensioni e offrire ai visitatori l’opportunità di riflettere sulla natura ciclica del tempo e sull’importanza di mantenere vive le radici del nostro passato mentre guardiamo verso il futuro.

Come si articola il tuo processo creativo?
Il mio processo creativo è legato a doppio filo con la mia quotidianità. Durante la mia giornata cerco sempre di trovare il tempo per attività semplici eppure profondamente soddisfacenti, come leggere, scrivere e passeggiare. Durante le mie passeggiate, per esempio, presto particolare attenzione alle erbe spontanee che crescono liberamente, senza un preciso progetto, ma si adattano con una naturalezza sorprendente all’ambiente circostante. È un’immagine che mi colpisce profondamente, mi piace pensare che anche le mie opere d’arte possano seguire lo stesso principio. Per la concreta realizzazione dei progetti, poi, studio attentamente le situazioni in cui mi devo inserire e faccio riferimento al mio archivio di conoscenze e “reperti” raccolti durante le mie esplorazioni. Cerco di creare uno scenario che si integri con l’ambiente, come se fosse una naturale estensione di esso. Per me, l’opera d’arte non è il punto finale, ma piuttosto la virgola alla fine di una frase: un momento di pausa che permette di riflettere sul contesto più ampio. È un approccio che mi permette di entrare in connessione con il mio lavoro e con il mondo che mi circonda, voglio celebrare la bellezza e la complessità della natura.

A proposito di natura: che rapporto hai con lei? E come si inserisce nel tuo fare arte?
Il mio legame con la natura è molto profondo e radicato fin dall’infanzia. Sin da piccolo, durante le gite in montagna con la mia famiglia, ero attratto dalle relazioni tra gli elementi naturali e cominciavo a sperimentare con essi. Con il passare degli anni, mi sono avvicinato sempre di più al mondo naturale, ho scoperto che con l’arte posso continuare a giocare e a esplorare come facevo da bambino. Oggi, come allora, cerco di comprendere e di carpire i suggerimenti che la natura ha da darmi, mi lascio ispirare. È un viaggio senza fine, un dialogo costante con il mondo esterno, che mi arricchisce e mi nutre sia come artista che come individuo. Ciò che mi affascina di più sono quei processi che, sebbene siano così intimamente legati alla nostra esistenza, spesso sfuggono alla nostra comprensione o conoscenza approfondita. È come se la natura custodisse segreti antichi, pronti ad essere rivelati a chi sa ascoltarli.

Come scegli e come ti approcci al materiale che utilizzi?
La mia priorità assoluta è che i materiali che utilizzo siano biocompatibili e non dannosi per l’ambiente. Lavoro per la natura e affronto tematiche legate alla sua salvaguardia, sarebbe ipocrita farlo attraverso materiali tossici o inquinanti. Allo stesso modo non uso energia che non sia la mia, i rizomi dell’Archeologico sono piegati e modellati dalle mie mani. Inoltre, sono realizzati in ottone, una lega di rame e zinco che non solo rispetta i miei criteri di biocompatibilità ma ha anche una qualità intrinseca che si lega alla spiritualità e al sacro. Grazie al suo colore dorato, infatti, riesce a dare un colpo di luce, nonostante sia allestito nella penombra.

Che significato hanno per te le radici? Quali sono le tue radici artistiche?
Il mio lavoro affonda le sue radici nella curiosità e in quel magnetico fascino che la natura ha sempre esercitato su di me. La radice stessa rappresenta per me più di un semplice elemento materiale: è un suggerimento, un indirizzo da seguire. Mi invita a tornare alle nostre origini, a riconsiderare e analizzare il nostro passato con occhio critico. Credo fermamente che solo comprendendo appieno il nostro passato possiamo sperare di vivere un presente che guarda con ottimismo e impegno verso il futuro.

Come si lega quest’opera ai temi del festival CONNEXXION? Come li vivi nella quotidianità del tuo processo creativo?
La memoria, la libertà e l’identità sono temi strettamente intrecciati. La memoria rappresenta per me la possibilità di imparare dalla Storia e dalle esperienze passate. È attraverso la memoria, il sapere e la cultura che acquisiamo la libertà di scegliere in ogni ambito della nostra vita. Grazie alla conoscenza, siamo liberi di affrontare determinati argomenti e, auspicabilmente, di agire di conseguenza. Conoscere a fondo il Museo e i concetti fondanti del Festival mi ha consentito di creare un’opera in grado di inserirsi in questo contesto e rifletterne i valori fondamentali.
L’identità arriva di conseguenza: una volta che conosco e sento mie le tematiche, allora posso lavorare. Come artisti, abbiamo una grande responsabilità nei confronti della società. Non possiamo limitarci a fare arte per fini celebrativi, dobbiamo essere consapevoli degli oneri che derivano dal nostro lavoro. Personalmente, mi sento in dovere di dare quel qualcosa in più, quel minimo passo in avanti rispetto agli artisti che mi hanno preceduto, non per superbia, piuttosto per non tenere in sospeso un discorso che deve necessariamente progredire.